Pro una caminera noa, intervento all’assemblea sarda di Santa Cristina

 

 

È stata convocata quest’assemblea, come sappiamo, per verificare la possibilità della creazione di un fronte unico di forze politiche e sociali il cui primo scopo deve essere quello di sviluppare una campagna di agitazione e di lotte capace di mobilitare e far risollevare i settori sfruttati e oppressi del popolo sardo.

In cosa deve consistere quindi questa campagna di lotte?  Nello strappare al più alcune concessioni (come  nel caso del riformismo) o lottare per la conquista del potere da parte degli sfruttati?

Nel primo caso si perde già in partenza. La classe dei capitalisti (borghesia) non è disponibile ad alcuna concessione. Mancano gli strumenti economici e le condizioni politiche che le hanno rese possibili nel secondo dopoguerra. Il debito pubblico con cui furono finanziate ha raggiunto livelli insostenibili. Con il crollo dell’URSS e il venire meno dello “spettro” della rivoluzione socialista, la conseguente disgregazione e dissoluzione di alcune delle principali organizzazioni del movimento operaio e il mutamento dei rapporti di forza tra le classi sul piano internazionale, il tradimento della burocrazia sindacale, è venuta meno la pressione politica che aveva indotto la borghesia a fare alcune concessioni per non perdere tutto. La crisi economica catastrofica del capitalismo è una crisi di sovraccumulazione di capitali, esattamente come aveva descritto Marx nel terzo libro del capitale, e proprio il carattere specifico delle crisi del capitalismo nella sua fase storica terminale di decadenza, crisi di sovraccumulazione dove il capitalismo non riesce più a valorizzare i capitali accumulati fa sì che non ci siano più spazi per concessioni, ogni concessione è un ostacolo alla valorizzazione, e vissuta come una costrizione insopportabile, il solo modo per il capitalismo di andare avanti è intensificando lo sfruttamento, cancellando tutte le conquiste ottenute dal movimento dei lavoratori  organizzato, ridurre i salariati in manodopera servile ed espropriare gli strati sociali intermedi non ancora divenuti salariati.

Da questa situazione ne deriva che ogni lotta rivendicativo o a difesa di quella parte delle conquiste economiche sociali e democratiche non ancora distrutte pone necessariamente ed immediatamente la questione del potere. Cosa vuol dire immediatamente vuol dire che ogni rinvio della questione è un passo ulteriore nella barbarie e che senza porre la questione del potere, cioè dell’esproprio dei capitalisti e della riorganizzazione dell’economia secondo la pianificazione socialista basata sull’organizzazione democratica delle masse di produttori, non si può risolvere nessuna delle questioni di fronte a noi.

Assunto questo come punto di partenza centrale, la domanda è come si rovescia la classe dei capitalisti in Sardegna e come le masse sfruttate e oppresse sarde possono conquistare realmente il potere? La risposta molto semplicemente è: con una rivoluzione!

Sappiamo però ovviamente che sul piano della realizzazione pratica non è altrettanto facile come su quello dell’enunciazione verbale, e tuttavia, non c’è altra soluzione. Il primo passo per risolvere la questione è innanzitutto, chiarire e chiarirsi, quali sono gli ostacoli pratici rispetto alla realizzazione di questo obiettivo fondamentale. Gli ostacoli sono sostanzialmente 3 e dialetticamente intrecciati gli uni agli altri, in un modo che non è possibile risolverne uno se parallelamente non si risolvono anche gli altri. Si tratta della:

  • Crisi della coscienza di classe socialista delle grandi masse sfruttate e popolari sarde, cioè della perdita della consapevolezza che la solo soluzione ai problemi generali nella società capitalista(crisi economica, crisi sociale, crisi morale, crisi ecologica) passa per il rovesciamento di questo sistema e la sostituzione quindi di un tipo di organizzazione economico sociale finalizzata alla produzione di capitale con una finalizzata alla soddisfazione dei bisogni reali degli esseri umani in armonia con la natura.
  • Crisi organizzativa dei lavoratori e del movimento di massa: dissoluzione o degenerazione delle tradizioni organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio e popolare sardo e dello Stato Italiano, assenza di forme organizzative e di coordinamento generale delle lotte in corso.
  • Crisi della direzione politica rivoluzionaria. La classe dei salariati e degli sfruttati sardi sono privi di una direzione politica rivoluzionaria e questa direzione a difficoltà ad emergere, farsi riconoscere o divenire punto di riferimento delle grandi masse.

A questi tre elementi si aggiunge come fattore di amplificazione della loro crisi, il controllo e l’influenza pesanti che svolge la burocrazia sindacale delle organizzazioni e di settori decisivi di salariati, che costituisce un vero e proprio freno allo sviluppo della libera energia delle lotte e al loro coordinamento, agendo nei come strumento della classe dominante per garantire una stabilità sociale relativa del sistema, pur in tempo di crisi acute e sempre più esplosive.

Questi tre fattori e il ruolo sociale della burocrazia sindacale sono la principale causa dell’impasse attuale, pur nel contesto di una crisi dalle caratteristiche esplosive e potenzialmente rivoluzionarie.

Come si esce da questa impasse?

Qui veniamo al punto centrale della campagna di lotte intorno ad un programma ben preciso, oggetto di discussione in questa assemblea, intesa però in senso rivoluzionario.

Cosa s’intende per campagna di lotte rivendicative condotta in termini rivoluzionari. La lotta rivendicativa, sia difensiva che offensiva, condotta dai riformisti, rifiuta sempre di porre la questione del potere, si limita o esclusivamente a rivendicazioni parziali (programma minimo) o a rinviare sempre all’infinito la questione dello strumento attraverso cui dare concreta attuazione e stabilità alle rivendicazioni per cui si combatte, quella del potere (programma massimo).

Questa frattura tra i due punti, la lotta di resistenza e quella per il potere, dati i livelli di crisi politica delle masse appena descritti (della coscienza socialista, organizzativa e di direzione rivoluzionaria) può essere superata attraverso l’agitazione di un programma di rivendicazioni transitorie che partendo dai problemi materiali attuali, cioè che più toccano e riguardano la condizione di esistenza delle masse subalterne, a dal loro attuale livello di coscienza consenta di farle arrivare alla consapevolezza della necessità della lotta per la conquista del potere. Ci serve, in altre parole, un programma di rivendicazioni transitorie che ci consenta di aiutare le masse a trovare, nel processo della loro vita quotidiana, il ponte tra le rivendicazioni attuali e la consapevolezza di rovesciare la classe al potere.

È questo il senso che deve avere la nostra campagna, essa deve servire innanzitutto da riorganizzatore collettivo. Ci deve servire cioè attraverso l’organizzazione di campagne di lotta o l’intervento nelle lotte già in corso a riorganizzare politicamente e in maniera indipendente le masse sarde. Organizzare le masse in maniera politica indipendente non vuol dire organizzarle in termini antipolitici o antipartitici, vuol dire far emergere dal basso delle lotte degli organismi democratici delle masse stesse autogestiti, democraticamente strutturati, che siano in primo luogo l’organo di direzione della lotta, ma capaci di evolvere in embrioni di organi di contropotere.

È come se fossimo di fronte al problema della riorganizzazione, del raggruppamento di un immenso esercito, che esiste già, ma disperso, privo di addestramento, senza la disciplina che gli deriva da un’organizzazione, demoralizzato perché privo di prospettive. Le lotte sono lo strumento attraverso cui possiamo ricompattare e ricostruire questo esercito, riaddestrarlo, riattivarne il morale attraverso la sperimentazione della propria forza e della propria capacità organizzativa a partire dall’organizzazione e dall’impegno nelle stesse singole lotte. Ecco quindi l’immensa funzione pratica di riorganizzazione e educazione politica delle grandi masse sarde, che possono avere le lotte specifiche in Sardegna, e l’importanza, allora, fondamentale che noi riusciamo a suscitare, estendere, moltiplicare, coordinare il più possibile queste lotte, l’importanza di un programma di rivendicazioni transitorie intorno a cui innescare queste lotte.

Abbiamo usato la metafora dell’esercito per descrive le grandi masse sarde che ci proponiamo di riorganizzare. Ma quali sono queste masse? Questo è molto importante capirlo e vederlo più nel dettaglio, perché dal carattere delle masse, delle persone cui intendiamo rivolgerci dipende chiaramente il carattere stesso del programma che vogliamo agitare.

Mi sembra che i qui presenti siamo tutti unanimemente d’accordo sul fatto che possiamo caratterizzare la società sarda come una società capitalista. Cioè una società dove la classe dominante al potere è quella dei detentori del capitale (banchieri e finanzieri, industriali, rentiers finanziari, la cosiddetta borghesia), il fine della produzione sociale è la produzione e accumulazione di questo capitale, le istituzioni hanno un carattere specifico che è quello di strumento di difesa e di riproduzione delle condizioni per continuare a produrre e accumulare capitale, e il ceto politico che amministra queste istituzioni agisce come amministratore del governo degli interessi della classe dei capitalisti. Questo è il quadro che la Sardegna ha in comune con il resto del pianeta, dato che il capitale ha colonizzato ogni angolo del globo proprio come uno dei prodotti più diffusi dell’industria nell’epoca borghese, la plastica. Se questo è il quadro generale e il carattere della classe attualmente al potere non differenti devono essere i caratteri delle altre classi subalterne ad essa, e in particolare di una classe fondamentale, che è il prodotto tipico ed originale della società capitalista, la classe dei lavoratori salariati, il proletariato, senza la cui esistenza non sarebbe possibili né accumulazione né l’esistenza quindi della società capitalista. Quale è, allora, il peso specifico ed il rapporto tra queste classi nella società sarda?

Se guardiamo ad alcuni dati economici della Sardegna, vediamo ad esempio che i lavoratori salariati sono quasi il 61% del totale delle forze di lavoro e il 73, 6% della forza lavoro occupata sarda. A questo 73% bisogna aggiungere poi i disoccupati, il 17,3% della forza di lavoro (circa 120mila persone), costituita anch’essa da proletari, di cui costituiscono l’esercito industriale di riserva, in grandissima parte giovani. Vi sono poi i cosiddetti “inattivi” (intorno alla 431mila persone) in gran parte compresi nella categoria del proletariato. Già questi dati ci dicono che approssimativamente circa il 90 % della forza lavoro sarda è compresa nella categoria del proletariato. Viste anche dal punto di vista di un altro indicatore, si conferma la prevalenza del proletariato in termini assoluti e relativi su tutte le altre classi sarde. In base ai più recenti dati Irpef disponibili su 1.054.782 contribuenti sardi 514.297 (49%) sono lavoratori dipendenti, quindi appartenenti alla classe dei salariati, altri 338.567 (36,8%) pensionati, che come è facile immaginare si collocano principalmente in grandissima maggioranza all’interno di questa stessa classe, e infine vi sono altre 148.918 persone (14,2%) catalogato come altri, che comprendono i redditi da lavoro autonomo e imprese, dove per imprese si intendono però non le società di capitali, ma le ditte individuali senza dipendenti. Si tratta di partite IVA, piccole imprese artigiane o agropastorali (ricordiamo che le imprese agricole sarde sono circa il 98% individuali o a conduzione familiare senza impiego di salariati). Anche questo dato, decisamente minoritario seppur significativo, non deve comunque trarre in inganno, perché la condizione materiale di una porzione fondamentale e crescente di questo settore, qualsiasi possa essere la percezione e l’illusione di status sociale che essa possa avere di sé, è molto prossima se non sconfinante nel proletariato, (ed in certi casi nasconde vere e proprie forme di lavoro salariato e subordinato camuffate da contratti atipici) in particolare oggi con la grave crisi economica che ha provveduto al ridimensionare pesantemente insieme ai redditi anche le illusioni di status, confermando l’analisi di Marx sul processo di proletarizzazione dei ceti medi nella società borghese. Ad esempio, un recente sondaggio condotto dalla CGIL tra le partite IVA ha rilevato che almeno 4 su 10 sono false; che il 73% non risulta iscritto ad alcun albo professionale; che il 63% ha dichiarato un reddito inferiore a 19.395 euro (grosso modo il reddito di un operaio qualificato) che il 35 % svolge una prestazione fissa presso una delle sedi del committente; e che 37% ha dichiarato che il proprio fatturato è derivante per almeno l’80% dallo stesso committente. Laddove non siamo in presenza di un salariato camuffato, siamo comunque di fronte ad un “autonomo” con un rapporto di lavoro di stretta dipendenza e subordinazione alla direzione dell’impresa capitalista.

Già il semplice fatto che il proletariato costituisca la maggioranza in termini assoluti della nostra società ne fa di per sé una classe centrale e qualsiasi organizzazione politica in Sardegna pretenda di parlare o agire in nome del popolo sardo non prescindere dal fatto che la maggioranza di questo popolo è costituita dal proletariato. Tuttavia non è solo il semplice fatto di essere la classe maggioritaria della società a fare del proletariato sardo la sola classe rivoluzionaria e pertanto la direzione politica alternativa di tutte le altre classi e strati sociali subalterni ai capitalisti.

La borghesia, ad esempio, è classe dirigente della società pur essendone l’esigua minoranza (1%) in virtù degli enormi mezzi economici e del controllo dell’apparato statale di cui dispone. E il proletariato ha già dimostrato di essere classe rivoluzionaria e in grado di divenire classe dirigente della società pur da una posizione numericamente estremamente minoritaria, come nel caso della Rivoluzione russa “d’Ottobre” del 1917.

Infatti il carattere rivoluzionario del proletariato deriva innanzitutto dal fatto che mentre la nascita e lo sviluppo della grande industria fa tramontare le altre classi, la classe salariata è il suo prodotto più specifico. Questo è ben descritto dalla storia recente della Sardegna degli ultimi 60 anni dove da una società ancora prevalentemente agricola con una forte presenza dell’elemento contadino e pastorale si è passati ad una società dove il peso dei ceti delle campagne si drasticamente ridotto e prevale una maggioranza di salariati. Guardando bene però alla struttura sociale delle campagne sarde alla vigilia della comparsa della grande industria degli anni ’60, si scoprirebbe però un già avanzato processo di proletarizzazione della Sardegna, caratterizzato dalla consistente presenza di un proletariato agricolo bracciantile. La crisi e lo smantellamento di settori consistenti della grande industria in Sardegna, e in importanti aree dei paesi capitalistici avanzati, che è servita a giustificare le tesi irrazionali e false postmoderne sulla fine dell’industria e del lavoro salariato, e con esse del proletariato sono smentite dal fatto che lo smantellamento della grande industria in determinate aree non ha un carattere assoluto ma relativo perché corrisponde alla delocalizzazioni in altre aree del pianeta, ad una estensione della divisione internazionale del lavoro, allo sviluppo dell’industria e del proletariato in aree del pianeta prima sottratte all’azione diretta del capitale (ex URSS e in particolare la Cina e l’estremo oriente). Questo ha fatto sì che in tutto il pianeta il proletariato sia aumentato non diminuito, e che aumenti costantemente. La crisi della grande industria in Sardegna non ha portato, quindi, come dimostrano i dati appena citati, ad una scomparsa o riduzione del proletariato, ma solo ad un mutamento della sua composizione con una riduzione delle grandi concentrazioni di fabbrica e l’aumento dei disoccupati e dei salariati impiegati nei servizi (scuola, sanità, commercio e grande distribuzione ecc.). In particolare gli elevati livelli di disoccupazione in Sardegna, confermano che la crisi capitalista non fa scomparire il proletariato ma ne ingrossa semplicemente il suo esercito industriale di riserva immettendovi anche settori precedentemente non proletari, e arricchendolo di una nuova componente che sono le nuove masse di profughi che sbarcano nelle coste dello Stato Italiano.

Lo sviluppo della grande industria ha espropriato interi settori della società, ha creato le grandi concentrazioni di fabbrica da una parte e la massa enorme di salariati, una massa da cui dipende l’intero funzionamento del meccanismo economico della società, questo elemento rafforza e fa sentire ai lavoratori salariati la propria forza come classe, una forza che si misura chiaramente in momenti particolari ad esempio come gli scioperi generali. Anche i settori meglio organizzati delle classi intermedie, pensiamo, per fare un esempio ai pastori sardi, per quanto siano stati capaci di lotte esemplari per coraggio e radicalità, vista la loro posizione ridotta all’intero sistema produttivo della società capitalista non sono in grado di paralizzare l’intero sistema produttivo. Uno sciopero generale ben organizzato invece della massa dei salariati è in grado di paralizzare l’intera società svelando la base materiale reale su cui si fonda il capitale.

I ceti intermedi combattono fondamentalmente i capitalisti solo per impedire la propria scomparsa come classe intermedia costantemente minacciata dallo sviluppo dell’industria e dalle crisi del capitalismo, e diventano rivoluzionari solo in determinate condizioni, quando stanno per passare al proletariato.

Le classi dominanti che si sono succedute nella storia hanno sempre cercato di garantire, invece, la propria posizione assoggettando l’intera società.

Il proletariato è invece l’unica classe che, a differenza dei ceti intermedi, e della classe capitalista al potere, per la particolare forma di sfruttamento a cui è soggetto, quella del lavoro salariato non ha altra possibilità per smettere di essere sfruttato che rovesciare il capitalismo, cioè rovesciare il sistema di produzione con l’intera sua sovrastruttura politica che si basa sullo sfruttamento del lavoro salariato.

Chiarito quindi che la classe sociale principale e rivoluzionaria in Sardegna è la classe dei salariati e delle salariate, e che i settori intermedi non possono prescindere dall’alleanza e dalla direzione politica del proletariato sardo se voglio difendersi efficacemente dall’aggressione dei capitalisti di quale programma abbiamo allora bisogno?

Abbiamo bisogno innanzitutto di un programma che ci consenta di riorganizzare e mobilitare unitariamente l’insieme dei salariati e salariate sardi divisi nelle differenti categorie occupati e disoccupati, e nei vari settori all’interno degli occupati. E un programma poi attraverso il quale il proletariato sardo organizzato sappia attrarre a sé e mobilitare sotto la propria direzione i settori intermedi impoveriti e colpiti dalla crisi.

Occorre ad esempio un programma per i disoccupati sardi. Rispetto alla disoccupazione un punto fondamentale è un piano di rivendicazioni economiche e di lotta che consenta di sottrarre i disoccupati al ricatto che ne fa un esercito industriale di riserva che preme sui salari e i diritti acquisiti dei lavoratori occupati ed elemento di divisione all’interno della stessa classe. Per questo una proposta può essere un sussidio di disoccupazione individuale corrispondente al paniere familiare (cioè ai beni necessari alla vita dignitosa di una famiglia) integrato con un’altra misura fondamentale di sostegno come la gratuità dei servizi essenziali: acqua, luce, gas, istruzione sanità, telefonia e trasporti.

La lotta per i sussidi che consentano di sottrarre al ricatto si deve combinare ad una lotta generale per un piano di opere di pubblica utilità in cui riassorbire l’intera disoccupazione, consistente nella ristrutturazione di strade, rete idrica, risanamento o bonifica ambientale delle aree industriali dismesse (pensiamo all’area dell’ex petrolchimico di Porto Torres), rimboschimento e cura dei collegamenti delle campagne, potenziamento del trasporto pubblico locale e della rete ferroviaria sardi. Recupero delle grandi piane agricole abbandonate per la produzione agricola alimentare sana e la sua trasformazione industriale.

Vi sono poi i lavoratori dell’industria ancora attivi e cassintegrati, pensiamo, ad esempio all’area di Sarroch da una parte e del Sulcis dall’altra, ai lavoratori impiegati nella produzione di energia e nella gestione delle reti. In questo caso il programma rivendicativo deve comprendere la lotta per il risanamento ambientale dei luoghi di lavoro, per gli aumenti salari, per l’abolizione di ogni forma di precariato e la cancellazione delle jobs act e di tutte le norme che limitano o annullano i diritti sindacali acquisiti, la reintroduzione della scala mobile dei salari, la riduzione dell’età di pensionamento, e la riduzione dell’orario e dei carichi di lavoro a parità di salario. Queste due ultime rivendicazioni si connettono direttamente con la lotta contro la disoccupazione, creando un ponte con i disoccupati, perché comportano necessariamente un aumento delle assunzioni.

Il rinnovo e l’aumento della cassa integrazione per i cassintegrati.

L’esproprio senza indennizzo e sotto controllo operaio di tutte le principali industrie sarde e delle industrie altamente inquinanti e impattanti, a partire dalla Saras di Sarroch e dal polo dell’alluminio del Sulcis.

L’esproprio è la precondizione per procedere al risanamento delle aree inquinate a totale carico dei capitalisti.

Lavoratori e lavoratrici della grande distribuzione. Questa categoria di salariati di più recente formazione ne fa un tipo di lavoratori dalle caratteristiche molto simili, si potrebbe dire quasi dei surrogati, dell’operaio di fabbrica classico: grandi e medie concentrazioni di lavoratori per singole unità produttive e in aree prevalentemente urbane; intensi ritmi di sfruttamento; gestione di settori decisivi come la distribuzione delle merci, tutti elementi che favoriscano la formazione di organizzazioni e lotte collettive e di massa. Per questo settore è importante un piano di rivendicazioni in parte simile ai lavoratori di fabbrica contro precariato e sfruttamento dei ritmi di lavoro, abolizione del jobs act assunzione a tempo indeterminato, abolizione del lavoro festivo ecc. È questo anche un settore dove oltre a registrarsi una forte presenza giovanile vi è da ricordare anche quella del nuovo proletariato immigrato di origine africana, mediorientale ed asiatica, come anche in altri servizi, in particolare nelle aree più ricche dello stato italiano, impiegato nei lavori più umili meno retribuiti e tutelati come il facchinaggio. Questo rende ancor più importante il lavoro di agitazione e organizzazione dei lavoratori della grande distribuzione perché è un veicolo della stessa organizzazione politica e sindacale del nuovo proletariato immigrato. In questo caso è utile approfondire, diffondere e studiare anche in Sardegna l’esperienza della principale e più combattiva organizzazione sindacale dei facchini e della grande distribuzione, il Si.Cobas.

Riguardo ai lavoratori della sanità bisogna combinare la lotta contro le privatizzazioni, i tagli e lo smantellamento dei servizi, con un aumento degli investimenti pubblici, l’abolizione dell’odioso sistema delle intramoenia e delle liste d’attesa, l’incremento dei servizi per gli anziani, i disabili e specialistici, la medicina preventiva e del lavoro, e con la lotta per l’abolizione del precariato nella sanità, il potenziamento del personale attraverso nuove assunzioni e l’assunzione in ruolo e a tempo indeterminato di tutto il personale impiegato. Si deve curare in particolare l’agitazione di questa campagna anche nelle facoltà mediche tra gli studenti di infermieristica e delle specializzazioni mediche e tra il personale OSS, associata all’abolizione del numero chiuso in medicina.

Analogo discorso contro le privatizzazioni per il potenziamento dei servizi e contro il precariato va fatto per i lavoratori dei trasporti pubblici sardi

La nazionalizzazione (regionalizzazione) dell’intero sistema creditizio sardo senza indennizzi e sotto controllo dei lavoratori è una prima condizione per sottrarre settori intermedi, come i pastori o i lavoratori autonomi oppressione del capitalista nella forma dei debiti contratti per far fronte all’esigenza di allevamento e produzione in un contesto di crisi profonda e crollo dei prezzi di alcuni prodotti come il formaggio.

Notate bene nella lotta fondamentale per l’esproprio e la nazionalizzazione (regionalizzazione) senza indennizzo delle principali industrie e delle banche sarde si pone già implicitamente la questione del potere in Sardegna, perché questa lotta colpisce direttamente i settori fondamentali del capitale in Sardegna li sottrare alla gestione della borghesia e pone le condizioni economiche per la riorganizzazione economica e la risoluzione dei problemi sardi. In questa lotta bisogna sfruttare e rivendicare gli stessi diritti che lo Statuto sardo riconosce in materia di espropri e i limiti alla proprietà privata nelle questioni di salute pubblica e pubblica utilità.

Queste alcune delle proposte programmatiche che come PCL avanziamo alle forze presenti a questa assemblea.

 

Gianmarco Satta

Partito Comunista dei Lavoratori per la Quarta Internazionale

Sezione Sassari-Olbia

 

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